mercoledì 26 dicembre 2018

CAMMINO DI PACE 1 GENNAIO 2019


“QUANTA STRADA HA FATTO LA PACE?”


Dieci anni di “Cammino di pace”, ma quanto ha camminato la pace nel mondo? 
E dentro di noi, in questi dieci anni?

Vicenza è una città costruita anche su ponti. Da quello grande sul Bacchiglione (Degli Angeli), a quelli interni del centro (Pusterla, Furo, S. Michele, S. Paolo, Barche), fino a quelli più recenti nell’anello di ingresso (S. Croce, Margherita, Borgo Berga).
Se tutti i ponti di Vicenza scomparissero?
Alcune zone della città resterebbero senza uscita. Altre zone sarebbero senza centro, e per tutti non vi sarebbe possibile il cammino consueto per raggiungere il lavoro, per tornare a casa, per arrivare fino ai luoghi dell’arte del Palladio … 

I Ponti sono solo dei muri che permettono il cammino. Ponti di mattoni, ponti di idee … ponti che ogni buona politica dovrebbe sempre costruire e custodire aperti!

Martedì 1 gennaio 2019
ritrovo ore 15 in viale Roma (monumento a Gandhi)


lunedì 24 dicembre 2018

Auguri di un gioioso Natale


"Auguri scomodi" di Tonino Bello

Carissiminon obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. 
Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
+ Tonino Bello

martedì 27 novembre 2018

Sinodo Sui Giovani - camminare assieme ai giovani

dalla pagina http://www.vigiova.it/la-parola-ai-giovani/sinodo-dei-giovani

Sinodo. “Camminare-insieme”, significa. E camminare insieme cosa significa?

Io, che di lauree in teologia non ne ho, lo intendo nel più letterale e concreto dei modi: camminare assieme, incontrare, far coincidere un pezzetto della mia strada con quella di qualcun altro. Senza metafore.

SINODO SUI GIOVANI - camminare assieme ai giovani.

Il dato di fatto è che il sinodo lo fa la Chiesa e che di giovani le chiese sono spesso vuote. Quindi?

Quindi vivere davvero questo sinodo significa per me incontrare soprattutto quei ragazzi che tra le quattro mura di una chiesa non entrano, ma che invece affollano strade, bar, scuole, campetti e stadi.

Se scegliamo di affiancarci sempre e solo ai “nostri”, trascuriamo la maggioranza: essere sinodo-oggi si tratta di coerenza, scegliendo di dedicare la corretta proporzione di energia e tempo alla corretta parte di ragazzi.

Ma significa anche avere coraggio. Coraggio di rischiare qualche porta in faccia pur di vedere noi giovani più da vicino, di mettere in discussione qualche certezza pur di una costruire una Chiesa che trovi spazio nella nostra vita.

Percepisco che il rischio principale di questo sinodo è che si riduca ad un sinodo-da-bar, un argomento di tavole rotonde, un riempimento di riunioni e serate.

Camminare-insieme si traduce in un gesto semplice, ma non facile: abbassare la maniglia della porta di casa- di Chiesa-per uscire in strada.

Davvero senza metafore.

Trovare tempo per incontrare ragazzi in carne ed ossa, con un nome ed un cognome, prima di parlare “dei giovani”.

Personalmente è stato un anno strano. Dico strano perché ho avuto il privilegio di vivere questo tempo in due modi: da ragazza quale sono e da “adulta” come ascoltatrice-di-giovani, poiché membro dell’équipe diocesana per la preparazione del sinodo. È stato uno sdoppiamento, una doppia visuale.

Da una parte il desiderio di essere ascoltata, dall’altra la responsabilità di ascoltare.

Papa Francesco circa un anno fa esortava ad ascoltare “il grido” dei giovani.

Mia mamma quando ero piccola mi spiegava che le persone quando stanno male gridano, ma quando stanno veramente male smettono di gridare.

Il grido dei giovani è oggi un grido mancato, strozzato in gola, un grido sordo per sciopero. Una protesta travestita da menefreghismo o un menefreghismo travestito da protesta. Protesta silenziosa per mancanza di spazi in cui poter far sentire la propria voce. Ed essere accolta ed ascoltata: con attenzione, con intenzione, con amore.

Forse questo coraggio un po’ manca. Forse non ci interessa davvero cosa hanno da dire a noi Chiesa questi ragazzi, forse ci fa comodo stare comodi al calduccio invece di esporci al vento della strada.

Forse c’è un po’ di paura nell’aria.

Paura di azzardare un cambio di schema per tornare a fare goal. Paura legittima. Ma personalmente avrei più paura di perdere la partita senza averle tentate tutte, cambio di schema compreso.

Adulti, scrivo pensando a voi ora. A te che leggi le considerazioni di questa 21enne, di una giovane tra tanti.

Tu hai la responsabilità. Nel dizionario della vita “responsabilità” è una parola pericolosa. Perché mette con le spalle al muro: o la guardi negli occhi o abbassi lo sguardo. Chi la guarda negli occhi, la abbraccia e inizia a camminare, chi abbassa lo sguardo per paura rimane lì, attaccato al muro.

Hai la responsabilità, come singolo che sceglie, di ascoltare le grida dei ragazzi del tuo quartiere, del tuo posto di lavoro, della tua parrocchia anche.

La responsabilità di essere il testimone credibile, l’esempio appassionato che andiamo cercando. La responsabilità di essere un adulto sincero, non perfetto.

Cosa chiedono i giovani che tu conosci? Emozioni forti? Felicità? Un lavoro?

Cosa passa per la testa e per i cuori dei ragazzi dei gruppi parrocchiali? Cosa toglie loro il sonno la notte? Le omelie, le catechesi, le testimonianze sono teologie scadute e incomprensibili oppure toccano il cuore dei ragazzi che hai di fronte?

Non c’è nulla da inventare, non servono ingegneri per questo sinodo, servono persone che ascoltino la realtà in cui vivono, si confrontino e, con coraggio, diano risposta concreta.

A te che leggi, giovane, fatti sentire e continua a dare voce a ciò che hai nel cuore. Non stancarti di cercare quei bellissimi adulti a cui davvero interessa camminare al tuo fianco. Esistono, sono pochi, ma esistono. Non lasciarli soli.

A te che leggi, adulto, vieni: qui fuori ti stiamo aspettando.

Senza metafore.


Betta

martedì 20 novembre 2018

23 novembre: Economia di guerra - economia di Pace

Venerdì 23 novembre

Mettete dei fiori nei vostri cannoni
Da una economia di guerra ad una economia di Pace

con don Maurizio Mazzetto di Pax Christi, Vicenza

Ponte di Barbarano - Opere Parrocchiali
ore 20: tisana accogliente
ore 20.30: intervento di don Maurizio e discussione

sabato 6 ottobre 2018

Marcia PerugiAssisi 7 ottobre 2018

dalla pagina http://www.paxchristi.it/?p=14524

Da sempre Pax Christi è tra i promotori della marcia per la pace Perugia Assisi. Anche il prossimo 7 Ottobre si metterà in marcia insieme a tutti coloro che desiderano un mondo finalmente libero da ogni violenza, ingiustizia, intolleranze, sfruttamento. Da ogni guerra.

Il vero "deficit" di cui nessuno parla: i 70 milioni di euro al giorno per le spese militari!

dalla pagina https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_vero_deficit_di_cui_nessuno_parla_i_70_milioni_di_euro_al_giorno_per_le_spese_militari/82_25617/




di Manlio Dinucci, Il Manifesto, 2 ottobre 2018


Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro.

Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell’opposizione, sul fatto che l’Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere miitare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l’Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.

Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l’«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare.

Quella statunitense per l’anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale.

Un crescente investimento nella guerra, che permette agli Stati uniti (secondo la motivazione ufficiale del Pentagono) di «rimanere la preminente potenza militare nel mondo, assicurare che i rapporti di potenza restino a nostro favore e far avanzare un ordine internazionale che favorisca al massimo la nostra prosperità».

La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell’anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.
500 miliardi di dollari.

Esso viene scaricato all’interno con tagli alle spese sociali e, all’estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime.

C’è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell’industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica BAE Systems, la franco-olandese Airbus, l’italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.

Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.

La Leonardo, che ricava l’85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d’intelligence, mentre in Italia gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin.

In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla US Air Force l’elicottero da attacco AW139.

In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell'Economia e delle Finanze) ha consegnato alla US Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.

Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c’è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.


martedì 15 maggio 2018

“Il reddito di cittadinanza rende più poveri È solo assistenzialismo che nega la dignità”

intervista a Muhammad Yunus, a cura di Francesco Sforza

in “La Stampa” del 13 maggio 2018


Zero povertà, zero disoccupazione, zero inquinamento. È questo il «Mondo a tre zeri» che l’economista bengalese Muhammad Yunus vorrebbe contribuire a edificare e che per adesso è il titolo del suo ultimo libro, realizzato insieme allo scrittore Karl Weber e pubblicato in Italia da Feltrinelli. Il premio Nobel per la Pace inizierà il suo tour italiano a Torino, giovedì prossimo, al Grattacielo Intesa San Paolo, per poi continuare a raccontare il mondo che vorrebbe a Milano, alla Fondazione Feltrinelli e poi a Roma, sabato, al Maxxi. 
Lo abbiamo raggiunto tra una conferenza e l’altra in giro per l’Europa.

Yunus, qual è la sua impressione quando viene in Europa?
«Mi piace la consapevolezza che c’è qui per la sicurezza dei cittadini, e mi piace il fatto che la società si senta responsabile per quelli che sono tagliati fuori, anche se poi non sempre riesce a includerli. Mi piace la preoccupazione per i diritti umani, per il ruolo della legge e soprattutto per la costruzione di leggi, per il percorso che porta a formarle. Sì, mi piace molto, sono cose che a noi dell’Est mancano».
Qual è secondo lei la lezione che in questo momento può venire dall’Asia all’Europa?
«L’Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c’è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall’Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo».

Cosa pensa dell’idea di un reddito di cittadinanza? Può essere una soluzione al problema della povertà?
«No, per niente, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale, che considera l’uomo una creatura artificiale da nutrire in laboratorio, con lo Stato e le istituzioni incaricate di procurare il nutrimento. Ma questa è la negazione dell’essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L’uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell’uomo un essere improduttivo, un povero vero».

Che società sarà quella in cui i robot sostituiranno gli uomini nei lavori meccanici?
«La tecnologia può ferire, ma una cosa sono le macchine, un’altra è l’intelligenza artificiale. E quando i robot diventeranno più efficienti e intelligenti degli uomini? Stiamo prendendo una direzione sbagliata, rischiamo di diventare le vittime di questo movimento. Dovremo alzarci in piedi e dire ad alta voce che rifiutiamo qualsiasi forma di rimpiazzo dell’essere umano, che possiamo risolvere i nostri problemi senza l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Credo che sia l’altra faccia del reddito di cittadinanza: un modo per impedire all’uomo di essere uomo».

Come descriverebbe la scuola ideale?
«La scuola oggi si propone come un luogo dove si insegna ai giovani a trovare un lavoro, e questo è il suo principale errore. Dovrebbe invece rendere i giovani pronti alla vita, non al lavoro. Dovrebbe insegnare loro a scoprire attitudini, a farsi imprenditori, a cogliere opportunità, a strutturarsi come cittadini e membri di una società, a coltivare conoscenze in cui il lavoro può essere uno degli esiti, non l’unico obiettivo. È limitante, i sistemi educativi attuali sono tutti da ridisegnare».

Come vede il ruolo della religione nelle società contemporanee?
«Tutte le religioni cercano di creare solidarietà ed empatia tra i loro membri, ma in un sistema impostato sull’egoismo e sulla realizzazione personale, come quello capitalista, valori come collaborazione e solidarietà valgono poco. Se la religione va da una parte e l’economia da un’altra vince l’economia, non la religione».

Qual è secondo lei il leader politico che sta rispondendo in modo più efficace alle sfide globali?
«Non ho molta fiducia nelle leadership globali in questo momento e penso in particolare a Donald Trump, che vuole un’America più chiusa e concentrata in sé stessa, dove le armi e le bombe sono uno strumento politico considerato efficace. Quello che in questo momento mi dà maggiore speranza è Emmanuel Macron, il presidente francese, mi piace come si pone e come parla. Forse è il primo di una nuova generazione di leader, me lo auguro».

sabato 12 maggio 2018

Oltre il lamento: i cattolici e la sfida dell'emergenza lavoro

intervista a Carlo Costalli, a cura di Andrea Tornielli

in “La Stampa Vatican Insider” dell'8 maggio 2018


È necessario «riequilibrare la macchina economica rimuovendo gli ostacoli per chi crea lavoro, ridando dignità agli emarginati e fermando la corsa al ribasso del costo del lavoro». Lo afferma Carlo Costalli, presidente del Movimento Cristiano Lavoratori, alla vigilia del Consiglio nazionale.

Come giudica il MCL l’attuale, difficile, congiuntura politica?
«Il ritardo nel fare un governo è incomprensibile agli occhi della gente, soprattutto mentre molte aree del Paese, il Mezzogiorno in particolare, sono in sofferenza. La ripresa che non arriva, l’occupazione che cresce solo in alcune regioni del Nord, la povertà delle famiglie che aumenta, richiedono risposte ferme sul terreno dei temi concreti, in primis per il lavoro, e non su quello delle formule. Sosteniamo gli sforzi del Presidente della Repubblica: anche se, comunque, c’è chi alle elezioni è arrivato primo, chi secondo e chi terzo».

Che cosa pensa dell’ipotesi di un voto in estate?
«Ritengo inammissibile l’ipotesi ventilata di un ritorno alle urne forse già a luglio, vista l’indisponibilità dei partiti ad accordarsi tra loro e ad appoggiare un eventuale governo di tregua. Innanzitutto l’astensionismo rischierebbe di diventare il primo partito in Italia, rischio scongiurato il 4 marzo scorso, ma, soprattutto, non possiamo permetterci un ulteriore stallo del Paese causato unicamente dall’egoismo dei partiti, che non solo così vengono meno alle loro responsabilità nei confronti degli italiani ma si dimostrano anche incapaci di un semplice atto di disponibilità nell’interesse del Paese».

Che cosa è emerso dal convegno dei giovani del Movimento che lo scorso 3 maggio ha cercato di analizzare quanto sta accadendo con l'aiuto dell'economista Leonardo Becchetti, del filosofo Massimo Borghesi e del professor Lorenzo De Sio?
«L’obiettivo dell’incontro era quello di andare oltre “il lamento” e i problemi che il voto del 4 marzo ha reso palesi a tutti, per rilanciare politiche e processi che possano rispondere alle tante sfide che abbiamo di fronte. Porteremo quanto è emerso dall’incontro nella discussione del Consiglio Nazionale del MCL, l’11 e 12 maggio prossimi, per proseguire con speranza e passione questo cammino. In particolare, se ormai è assodato che i partiti sono in crisi questo però non significa che siano inutili ma, proprio perché essenziali nelle democrazie, devono scoprire un nuovo modo per essere prossimi ai cittadini senza ridursi a gruppi elitari. Allo stesso tempo, è necessario ricominciare a discutere, a confrontarsi sulle scelte e trovare soluzioni condivise. Inoltre, crediamo sia possibile riequilibrare la macchina economica rimuovendo gli ostacoli per chi crea lavoro, ridando dignità agli emarginati e fermando la corsa al ribasso del costo del lavoro. È necessario “ricominciare a pensare” e portare avanti delle idee che abbiano una prospettiva, slegandosi dall’appiattimento sul presente per guardare al futuro riscoprendo il passato. Il mondo cattolico non può rimanere indifferente di fronte a queste responsabilità, ma deve rispondere riscoprendo l’unità attraverso la Dottrina Sociale della Chiesa».

In che modo MCL ha preso sul serio, operativamente, il messaggio dell'ultima Settimana Sociale?
«Il lavoro è nel DNA del MCL, ma il tema della 48a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, incentrato proprio sul lavoro, ha focalizzato ancora di più il nostro impegno con un lungo cammino di preparazione. La Settimana Sociale è stata un appuntamento importantissimo, in cui i cattolici si sono riuniti per far sentire la loro voce sulle emergenze sociali del nostro Paese, partendo proprio dal problema più serio. La sfida per tutti noi che abbiamo raccolto il messaggio della Settimana Sociale è molto alta: riannodare intorno al bene comune i fili del lavoro, della giustizia sociale, della solidarietà, in un progetto di futuro fondato sul valore della persona. Fili che abbiamo provato comunque a tessere in questi anni e che hanno un comune denominatore: rispondere ai deficit, alle distorsioni, agli errori che hanno condotto alla deriva dei nostri giorni».

Che cosa state facendo?
«Lavoriamo da tempo, senza sosta, per essere il punto di riferimento di quella parte di mondo cattolico che non si arrende, perché quella che si è aperta dopo la Settimana Sociale ritengo sia la stagione “del tempo opportuno”. Al tema della Settimana Sociale abbiamo voluto anche dedicare, nel mese di febbraio, la Winter School per i giovani quadri dirigenti del Movimento, che da anni organizziamo in collaborazione con l’Università Cattolica di Brescia: la formazione, soprattutto verso i giovani, è uno dei nodi centrali del nostro impegno. Noi del Mcl stiamo lavorando, e continueremo a lavorare, per il sistema Paese e non potremo fermarci fino a quando l’economia non sarà tornata in piena salute, con una netta riduzione della disoccupazione e della povertà, e i lavoratori non avranno un lavoro dignitoso».

Quali sono, a suo avviso, le principali urgenze per il Paese?
«La difficile situazione economica del Paese, l’aumento del debito, una politica “distratta” e “latitante” da anni, hanno aperto scenari inquietanti gravando soprattutto sul welfare. È cresciuto oltremisura il tasso delle famiglie in povertà assoluta e dei giovani a rischio povertà ed esclusione sociale, mentre i dati relativi alla disoccupazione non sono comunque confortanti. Queste, a mio avviso, le principali urgenze: le famiglie, i giovani, il lavoro e il Mezzogiorno».

Che cosa è necessario fare?
«È necessario ripartire dal lavoro, che è poi la prima preoccupazione delle famiglie e delle persone, con politiche attive e interventi formativi che accompagnino il lavoratore nelle diverse fasi della sua carriera. Una legge ad hoc può creare lavoro, ma se si vuole mantenerlo ci si deve concentrare sui fattori di sviluppo e di inclusione sociale per governare i profondi cambiamenti in atto su scala globale. Il primo obiettivo è il “lavoro per tutti”, degno ed equamente retribuito, e non il reddito per tutti come molti invocano con il reddito di cittadinanza: perché non avere lavoro è molto più drammatico della mancanza di reddito, senza lavoro viene meno la dignità stessa dell’uomo. Tra l’altro politiche di mera assistenza, oggi, sono impraticabili per il debito che ci caratterizza, piuttosto si devono attuare politiche che includano la persona mettendola in condizione di partecipare, prima di tutto attraverso il lavoro, alla società. Siamo dominati da logiche di breve periodo: un’economia solida non si costruisce sui fuochi di paglia, ma riducendo la pressione fiscale e permettendo alle imprese d’investire. Il Paese ha bisogno di una politica che abbia il coraggio e la volontà di affrontare seriamente questi problemi, in grado di assicurare le condizioni e di predisporre gli strumenti per migliorare i nostri sistemi formativi e per favorire la creazione di nuove imprese, di nuovo sviluppo, di nuovo lavoro».

L’Italietta che glorifica Netanyahu

di Moni Ovadia

in “il manifesto” del 8 maggio 2018


Il nostro Gino nazionale come l’avrebbe preso questo espatrio del nostro Giro in terra promessa? Il suo leggendario naso da italiano in gita sarebbe rimasto indifferente o si sarebbe stortato per l’indignazione di fronte alla partecipazione del ciclismo italico alla vergognosa operazione di strumentalizzazione mediatico-retorica di uno sport popolare per fini non certo nobili?
Il governo israeliano ha presentato le tappe che si sono svolte in Israele come un modo per onorare Gino Bartali, che fu un «giusto fra i popoli», in occasione del 70esimo anniversario della nascita e fondazione dello Stato d’Israele, Stato ebraico che si era proposto di raccogliere gli ebrei dispersi e sopravvissuti alla Shoà e ad altre persecuzioni per dare loro un focolare e invece in sette decenni il «sogno» è diventato un incubo.
Un incubo per l’altro popolo che abita quella terra, il palestinese.
Il presunto focolare è diventato una fortezza sedicente democratica e armata fino ai denti. Il suo comandante in capo, il suo governo sono spasmodicamente impegnati soprattutto in un’impresa: investire su ogni sforzo, ogni risorsa per impedire all’altro popolo presente su quella terra di godere dei suoi legittimi diritti.
Ospitare tappe del Giro d’Italia è l’ultimo strumento di abbagliamento mediatico che si aggiunge alla propaganda mirante a dissolvere l’identità palestinese, a negarne la titolarità, a farne dimenticare l’interminabile tragedia di cui è vittima dietro alla cortina fumogena della mitografia sionista che glorifica i grandi successi tecnici, scientifici ed economici israeliani per giustificare un’impunità ingiustificabile.
L’ideologia ultranazionalista che sorregge tutto ciò si fonda sulla confusione di eredità religiosa ovvero il polpettone mal ricucinato di un interpretazione capziosa del «dono» divino e una lettura falsificata della pretesa elezione, condita da un martellante e costante richiamo alla Shoà come arma di ricatto nei confronti delle vittime dell’oppressione coloniale e militarista e della pavida e ipocrita comunità internazionale che preferisce tacere o vagire qualche pseudo rimprovero tanto patetico quanto inutile.
E non stupisce che l’istituzione sportiva del nostro paese si sia piegata alla strategia del premier israeliano che non vuole la pace ma solo una costante tensione bellicista per restare al potere ininterrottamente per espropriare, rubare, inglobare le risorse delle sue vittime elettive.
La nostra italietta per cosa si è prestata a questa ulteriore e ingiusta sceneggiata. Per soldi? E non poteva farlo per legare l’iniziativa a progetti di pace? Ma siamo matti? La pace è troppo pericolosa per il moderatismo nostrano. Lo sanno quale è il livello di devastazione in cui versa Gaza? Per l’amore del cielo non parliamo di tristezze! E quale sarà il passo successivo? Il prossimo festivàl di Sanremo condotto da Netanyahu e Trump nella Gerusalemme eterna e unificata dello Stato di Israele in mondovisione?
C’è da aspettarsi di tutto, davvero di tutto, nella Città Santa, fuorché una pace equa basata sull’eguaglianza e la giustizia.

venerdì 20 aprile 2018

Siria


Siria: le “fake news” sulle armi chimiche per creare il casus belli?
10 aprile 2018

Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco nell’area di Douma, ultima roccaforte delle milizie jihadiste filo saudite di Jaysh al-Islam nei sobborghi di Damasco.
Innanzitutto perchè già in passato attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete mentre notizie e immagini diffuse oggi dai “media center” di Douma come ieri da quelli di Idlib, Aleppo e altre località in mano ai ribelli sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite.
Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali.
Notizie e immagini di attacchi chimici vengono subito diffuse dalle tv arabe appartenenti alle monarchie del Golfo, cioè agli sponsor dei ribelli, per poi rimbalzare quasi sempre in modo acritico in Occidente.
Basti pensare che in sette anni di guerra la fonte da cui tutti i media occidentali attingono è quell’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha sede a Londra, vanta una vasta rete di contatti in tutto il paese di cui nessuno ha mai verificato l’attendibilità, è schierato con i ribelli cosiddetti “moderati” ed è sospettato di godere del supporto dei servizi segreti anglo-americani.
Anche per questo non bastano i cadaveri dei bambini o dei sopravvissuti con mascherine collegate a supposte bombole ad ossigeno per dimostrare l’esito di un attacco chimico e la sua paternità.
Meglio ricordare le immagini diffuse l’anno scorso dei ribelli di Idlib (qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra) che mostravano improbabili soccorritori con abiti estivi e privi di protezioni occuparsi di supposte vittime del gas nervino di Assad. Se così fosse stato gli stessi soccorritori sarebbero morti in pochissimi minuti poiché quell’agente chimico viene assorbito anche attraverso la pelle.

A suggerire prudenza prima di attribuire agli uomini di Assad l’attacco chimico a Douma contribuiscono inoltre altre valutazioni. Jaysh al-Islam è una milizia salafita nota per aver impiegato i civili come scudi umani e per aver utilizzato il cloro nelle battaglie contro i curdi dell’aprile 2016.
Il cloro non è un’arma ma un prodotto chimico che può essere letale in forti concentrazioni e in ambienti chiusi, facilmente reperibile e già utilizzato nel conflitto siriano anche dallo Stato Islamico.
I miliziani dispongono quindi da tempo dello stesso aggressivo chimico e non è difficile ipotizzare, a Douma come in tanti altri casi incluso quello di Khan Sheykoun l’anno scorso, che siano stati gli stessi ribelli a liberare cloro ad alta concentrazione per uccidere civili e attribuirne la colpa a Damasco puntando così a incoraggiare una reazione internazionale contro il regime di Assad.
Del resto fu il presidente Barack Obama, nel 2013, a indicare nell’uso di armi chimiche da parte delle forze di Assad, quel “filo rosso” che avrebbe scatenato un intervento americano e non a caso ieri Trump ha accusato il suo predecessore di non aver chiuso i conti allora con Assad, definito “un animale”.
Il presidente siriano è certo uomo senza scrupoli ma non ha alcun interesse a usare armi chimiche che sono, giova ricordarlo, armi di distruzione di massa idonee a eliminare migliaia di persone in pochi minuti non a ucciderne qualche decina: per stragi così “limitate” bastano proiettili d’artiglieria e bombe d’aereo convenzionali.

Assad sta ripulendo le ultime sacche di resistenza in mano ai ribelli jihadisti e sta evacuando i civili dalle zone di combattimento: perché dovrebbe scatenare la riprovazione internazionale proprio mentre sta per cacciare i ribelli anche da Douma? Perché dovrebbe colpire quei civili che i suoi uomini stanno evacuando, per giunta dopo un accordo raggiunto con i miliziani di Jaysh al-Islam che consentirà il loro trasferimento forse in un’area vicina a Jarablus, al confine con la Turchia?
Il fatto che ieri Israele abbia invocato un attacco militare statunitense contro Damasco (conducendo poi un raid aereo contro la base T-4, vicina a Palmyra, con missili lanciati dallo spazio aereo libanese) e Trump abbia accusato anche Russia e Iran in nome di un attacco chimico che nessuna fonte neutrale ha potuto finora verificare, induce a ritenere che ci troviamo di fronte all’ennesima operazione propagandistica messa a punto usando lo spauracchio delle armi chimiche.
Washington infatti non ha escluso azioni militari contro Damasco caldeggiate anche da Parigi (che potrebbe partecipare a eventuali raid punitivi) mentre la Russia ha messo in guardia gli Usa contro un “intervento militare per pretesti inventati” in Siria, che potrebbe “portare a conseguenze più pesanti”.

La cautela dovrebbe quindi essere d’obbligo, specie dopo la figuraccia rimediata dal ministro degli Esteri britannico Boris Johnson che sulla responsabilità russa nel “caso Skripal” è stato smentito dal direttore dei laboratori militari di Sua Maestà.
Tra l’altro la denuncia dell’attacco chimico a Douma sembra cadere a proposito per scoraggiare il ritiro delle forze americane dalla Siria settentrionale e orientale, annunciato da Trump dopo il fallimento del proposito della Casa Bianca di far pagare ai sauditi qualche miliardo di petrodollari per finanziare le operazioni dei militari americani.
Il ritiro dei 2mila americani rischia però di lasciare carta bianca alle truppe turche nel nord del Paese e a quelle di Damasco nell’est, per questo oltre agli arabi e agli israeliani anche il Pentagono si oppone alla decisione annunciata da Trump.
Forse il presidente potrebbe essere costretto a cambiare idea di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale per i bambini uccisi dal cloro di Assad, “l’animale” alleato di russi e iraniani per il quale Trump minaccia una punizione esemplare.
Foto: AP, Die Welt, Douma Media Center e SANA